L'Agonìa di N.S.G.C.

Le Sette Parole dell' Agonia

di Nostro Signore Gesù Cristo"

Ogni anno, dal Giovedì Santo alla Domenica di Pasqua, le comunità locali in molti parti d’Italia rivivono il dramma della passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo e lo straziante dolore della Vergine Maria attraverso varie forme espressive che illustrano e animano la liturgia e la paraliturgia. In molte province dell’intera Italia, in questi quattro giorni si  parla una sola lingua: quella dei simboli.

Raccontare queste esperienze di fede significa raccontare la storia di una terra dalle profonde, autentiche radici cristiane. Nelle manifestazioni esteriori di questi aspetti della cosiddetta “devozione popolare”, che tanti segni ha lasciato in eredità ai nostri tempi, gli elementi consueti della  pietas  (canti e preghiere, inni e marce funebri, gesti come l’ostensione, il bacio, la processione e la benedizione con la croce) e i simboli come la scalinata del Pretorio e la colonna della flagellazione, lo scettro di canna, il mantello di porpora, i flagelli e la corona di spine, la scala, il martello, i chiodi e le tenaglie, la tabella con la scritta INRI, la lancia, la spugna e i dadi, il gallo appollaiato sulla colonna e il lino della Veronica con il volto sofferente di Gesù , si intrecciano in vario modo per dar vita a pii esercizi, talora pregevoli per valore contenutistico e, perché no, artistico e  formale.

Tali modelli devozionali, con il loro fervore drammaturgico e la loro forza spettacolare, hanno attraversato indenni i secoli e sono giunti pressoché inalterati fino ai nostri giorni, custodendo immutata la loro carica emozionale e sentimentale, espressa soprattutto dal passaggio dal dolore della Croce all’apoteosi della Resurrezione. È un percorso simbolico di espiazione e di glorificazione di tutto il popolo cristiano, che fa’ della Pasqua il momento culminante della rivelazione di Dio al Suo popolo. Nella loro rappresentazione c’è il cammino di dolore e di fatica dell’uomo verso la redenzione, c’è la paura della morte, il tradimento, la sofferenza, la solitudine, lo scoramento e l’incapacità di comprendere il disegno di Dio, ma anche l’attesa fiduciosa, la fede nella resurrezione, la speranza della gloria eterna, del “riscatto” al termine del “dolore”. Un itinerario penoso e difficile, ma sempre animato dalla certezza che la crocifissione è il gesto d’amore più grande, che dà senso e forza all’evento pasquale.

Il Venerdì santo, consacrato alla celebrazione della Passione del Signore e all’Adorazione della Santa Croce, è il “giorno” per eccellenza della fede cristiana, dedicato ad esprimere, anche e soprattutto, il trionfo della luce sulle tenebre, ad anticipare la vittoria della vita sulla morte.

Tra i momenti liturgici (o paraliturgici) che appartengono ormai a un sentire religioso del passato e, quindi, alla memoria di impalpabili emozioni fortemente vissute, vi sono le Sette Parole pronunziate da Gesù nelle tre ore di Agonìa sulla Croce. La liturgia delle tre ore dell’“Agonìa” si colloca infatti tradizionalmente nelle devozioni del Venerdì Santo ed  è una lunga meditazione sugli interminabili  momenti del  sacrificio in croce del Redentore. Tale liturgia, ispirata alle sette parole pronunciate da Gesù sulla Croce  e riportate  nei Vangeli di Luca (23.34 e 23.46), Giovanni (19.26 ; 19.27 ; 19.28  e 19.30) e Matteo (27.46), è cresciuta secondo una elaborazione poetica di origine probabilmente sudamericana (Perù) e  fiorì  in modo particolare nel secondo settecento  pur avendo avuto, certamente, uno sviluppo antecedente. In occasione dello svolgimento dei riti del Venerdì Santo – proprio da mezzogiorno fino alle 15, l’ora nona giudaica – il momento dell’Agonìa assumeva connotazioni di grande partecipazione e coinvolgimento dei fedeli, prima della commovente Adorazione della Croce, che quei riti concludeva e che oggi invece esaurisce la cosiddetta liturgia dell’hora nona.

Ciononostante in alcune Chiese locali continua ad essere svolta avendo Essa assunto carattere di tradizione plurisecolare difficilmente eliminabile tout-court senza creare sconcerto ed incomprensione.

 

La storia

Una tradizione nata molto probabilmente tre secoli e mezzo fa a Lima, in Perú, introdotta in Italia a Imola nella chiesa di S. Agata il Venerdì Santo del 1786.

Le tre ore sembrano rappresentare un riuscito tentativo di recupero e sviluppo degli aspetti sacri e comunitari inizialmente costitutivi della forma musicale stessa dell’Oratorio e se oggi questa pratica del Venerdí Santo pur si mantiene in qualche cittadina italiana, Alatri è uno dei rarissimi posti dove si è trasmessa invariata: purtroppo in genere la forma ne è ormai sostanzialmente corrotta, anche se ad Alatri l’orchestra non invade e non copre altare e Crocifisso in modo da far pensare piú ad uno spettacolo musicale che ad una devozione.

Nascita della devozione - Citiamo estesamente dal piú approfondito studio disponibile, quello di Magda Marx-Weber, «Musiche per le tre ore di agonia di N.S.G.C.». Una devozione italiana per il Venerdí Santo nel tardo 18° secolo e nei primi dell’Ottocento”: La Devozione «per le tre ore dell’agonia» si è sviluppata nell’ambito della Compagnia di    Gesú a Lima, in Perú. Sono ritenuti suoi creatori due importanti gesuiti peruviani, Francisco del Castillo (morto nel 1673) e Alonso Messia Bedoya (1665 -1732). Si pensa che dal 1660 circa sia stata celebrata questa funzione religiosa del Venerdí Santo  nella Chiesa Nuestra Señora de los Desamparados di Lima. L’impulso a ciò fu dato da una immagine di Gesú morente sulla croce (Santo Cristo de las Agonias) particolarmente venerata in quella Chiesa. Le funzioni religiose dei gesuiti ivi tenute erano cosí frequentate dalla gente del posto tanto che si rese necessaria la costruzione di un nuovo edificio che poté esser consacrato nel 1672.

Si consideri che nel 1660 erano passati solo cinque anni dal grande terremoto del 13 novembre 1655, in relazione al quale era nata l’importante devozione del Cristo de Pachacamilla.

Sviluppi  librari e approdo in Italia - Prosegue Magda Marx-Weber:

Alonso Messia, in seguito Provinciale dei gesuiti in Perú, pubblicò un piccolo scritto con le contemplazioni, preghiere e canti della devozione. Questo testo si è diffuso in innumerevoli edizioni e traduzioni in molte lingue in tutto il mondo cristiano. La piú antica  edizione spagnola che ci è nota risale al 1757 e si intitola: Devoción a las res Horas de la Agonia de Cristo Nuestro Redemptor y Método con que se pratica en el Colegio Máximo de San Pablo de la Compaśia de Jesús de Lima… Dispuesta por el P. Alonso Messia.

In Europa questa pratica è arrivata soltanto dopo la metà del 18° secolo e con tutta probabilità ciò è da mettere in relazione con l’espulsione dei Gesuiti dal Perú (1767). La prima edizione italiana del 1786 porta il titolo: Divozione alle Agonie del Nostro Redentore Gesú Cristo da praticarsi nel Venerdí Santo Dedicata AllEmo, Rvmo Principe il Signor Cardinale Gregorio Chiaramonti Vescovo dImola.

La traduzione in italiano è di Francisco Javier Ceballos (Xavier Zevallos) S.J. attivo presso il Colegio Máximo di Lima e che dopo l’espulsione dei Gesuiti dal Perú finí a Imola. Negli anni successivi, Pedro Cordón S.J. ha ristampato la traduzione di Ceballos e inserito ulteriori canti. È stata la Chiesa del Gesú, per prima a Roma, a riprendere questa devozione. Molte altre chiese romane seguirono questo esempio, soprattutto dopo che Pio VI l’11 febbraio 1789 aveva concesso l’indulgenza plenaria a tutti coloro che vi partecipavano.

L’edizione romana del 1801 nomina già diciassette chiese dove veniva celebrata la funzione del Venerdí Santo. Che proprio in Italia essa ebbe cosí ampia diffusione può essere dovuto al fatto che la considerazione delle Sette Parole del Redentore avevano lí una tradizione particolarmente forte e moltepli ce.

Con le edizioni italiane dell’opera di Messia abbiamo davanti, per cosí dire, il libretto delle composizioni delle Agonie. Nell’introduzione viene descritto in dettaglio lo svolgimento della devozione. Inizia il Venerdí Santo alle 12 e deve durare esattamente tre ore. Il crocifisso sull’altare è attorniato da                  candele   accese.

Una conduzione impegnativa - Il libretto della devozione non nasconde che se per i comuni fedeli l’effetto sarà «piacevolissimo», si tratta tuttavia di una liturgia piuttosto impegnativa per chi la deve condurre:

Qui si avverte che il Direttore deve andarsi conformando al tempo, talché non ne manchi alle Tre Ore, né sopravanzi, poiché questa divozione vuol terminarsi nel tempo appunto che Gesú Cristo spirò: quindi o piú adagio deve andare, o piú presto in quel che legga che reciti, come la misura del tempo richiederà. Conoscendo che tuttavia ne rimanga assai, potrà framezzare il canto de’ versi con una esortazioncella, o due, dove cadranno a proposito, e impiegherà a questa maniera piú tempo per arrivare colla divózione al termine delle  tre Ore.

Un compito dunque non certo facile:

Molti finivano esausti dopo tre ore di sermone, soprattutto quando non c’erano microfoni, ed è famoso il caso del gesuita che è morto di un attacco di cuore dopo aver detto l’ultima parola: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».

Nel saggio citato, Magda Marx-Weber aggiunge:

Se al termine di tale programma non fossero ancora trascorse le tre ore, il tempo rimanente verrà riempito con ulteriori canti. Piú spesso veniva aggiunto l’inno Vexilla regis o anche soltanto la sua sesta strofa O crux ave spes unica, certe volte il Responsorium O vos omnes, ovvero il verso Adoramus te Christe. Alcune composizioni riportano anche il credo apostolico fino alle parole «mortuus est» oppure «sepultus est».

Prosegue la studiosa tedesca:

Pedro Cordón ha aggiunto sette sue piú lunghe poesie alla traduzione di Ceballos. Le poesie di Cordón comprendono rispettivamente sei strofe atte a consentire piú ampie composizioni musicali. Una serie di compositori ha messo in musica questi testi alternativi, sia pure solo le prime due strofe delle poesie cosicché anche queste composizioni rimangono piuttosto brevi

 

Echi Metastasiani - Per completare il tempo, scrive ancora la Marx-Weber, possono essere apposti anche canti italiani non liturgici. Pietro Ciaffoni ad esempio mette in musica, dopo l’Invito, i celebri versi   di Metastasio tratti da La Passione di Gesú Cristo: «Quanto costa il tuo delitto, / Sconsigliiata umanità / All’idea di quelle pene…» .  Reminiscenze di poesie metastasiane si ritrovano anche nella seconda strofa de La prima parola: «Lascia Signor se puoi / Lascia di perdonar». In modo assai analogo si concludono la Parafrasi del 50° Salmo e una Preghiera di Metastasio del 1780.

Sul punto occorre precisare che in entrambe le strofe della Prima parola si ritrovano versi del Miserere di Metastasio, con minime variazioni. E non è certo un mistero che lo stesso Metastasio spesso rimaneggiava sue produzioni.

Abbiamo quindi due serie di strofe, sia per l’Invito che per ciascuna Parola. Magda Marx-Weber attribuisce la prima serie (più leggiadra e ariosa e con «reminiscenze di poesie metastasiane») a Francisco Javier Ceballos, la seconda (poco utilizzata e quasi mai per intero) a Pedro Cordón. Pedro Cordón S.J. (1750–1828), gesuita e poeta spagnolo (arrivò in esilio in Italia ventitreenne, ancora studente, nel 1773 e vi rimase fino al 1815) è sicuramente l’autore della seconda serie, ma sull’attribuzione al Ceballos della traduzione anche delle poesie restano invece dubbi fondati. Nell’oscurità si procede a tentoni: di recente un musicologo ha proposto addirittura il nome di Carlo Sernicola, librettista del Giordaniello. Ed esiste una antica tradizione che vuole proprio il Metastasio come autore e che ne fa spesso trovare il nome nelle locandine che presentano qualche realizzazione dell’oratorio.

Una buona battaglia - L’incertezza permane e, fino ad un suo convincente scioglimento, ci è dunque consentito immaginare questi esuli gesuiti, provvidenzialmente finiti dal Cile e dal Perú in quel di Imola (cittadina in quegli anni non marginale in quanto religiosa- mente governata da un parente del Papa), che subito decidono di preparare una loro riscossa utilizzando anche la «soavissima» devozione delle Tre ore, non senza coordinarsi con Roma che appena pronto il dispositivo proporrà la pia pratica nella chiesa del Gesú. Per apparecchiatura della chiesa e conduzione non ci saranno difficoltà, le conoscono perfettamente; gli intensi commenti di Louis de la Puente si tradurranno facilmente e nemmeno la musica sarà un problema, ché ha da essere facile, dolce e orecchiabile: si farà ricorso al grande repertorio popolare di rispetti e stornelli. Unico scoglio del progetto sono le poesie. Usi a vedere le cose in grande, per la resa in italiano delle rime a chi pensano se non al migliore sulla piazza, a Pietro Metastasio (1698–1782), poeta cesareo, o a qualcuno capace di imitarlo?

Pietro Metastasio, pseudonimo di Pietro Antonio Domenico Bonaventura Trapassi (1698 – 1782), presbitero italiano è stato  poeta, librettista e drammaturgo. È considerato il riformatore del melodramma italiano. Nel 1736, a Vienna,  venne alla luce La Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, che divenne uno degli oratori più musicati del XVIII° secolo. Il libretto fu scritto dal poeta imperiale di Roma su indicazione di Carlo V, Sacro Romano Imperatore. L'allestimento originale del compositore di corte Antonio Caldara della “La passione di Gesù Cristo signor nostro”  fu messo in scena nel santo sepolcro della Hofburgkapelle, la cappella reale di Vienna, per la Settimana Santa il 3 Aprile 1730.

L'oratorio rappresenta un distacco dalle ambientazioni dei racconti sulla passione presenti nel Vangelo, come la versione in latino Passio Secundum Ioannem di Alessandro Scarlatti, verso uno stile più teatrale. I quattro ruoli centrali sono quelli di S. Pietro, S. Giovanni, Maria Maddalena, Giuseppe d'Arimatea che rispondono alle domande di Pietro sulla crocifissione.

Il grande successo ottocentesco - In Italia nel primo l’ottocento la devozione si diffonde in modo travolgente.

Magda Marx-Weber parla di circa settanta partiture dell'Agonia, delle quali la maggior parte nel periodo 1790-1825. Nel periodo di maggiore popolarità della devozione tutti i maestri di cappella italiani compongono per le sue canzoni: menzioniamo qui i Maestri della Cappella Giulia in San Pietro a Roma: Pietro Alessandro Guglielmi, Nicola Zingarelli, Giuseppe Jannaconi, Francesco Basily e Pietro Raimondi, insieme a Bonaventura Furlanetto, direttore d'orchestra di San Marco a Venezia, Luigi Caruso, direttore presso la cattedrale di Perugia, Giuseppe Gherardeschi, maestro di cappella presso la Cattedrale di Pistoia, Giuseppe Giordaniello, maestro di cappella nella Cattedrale di Fermo. [...] B. Giovanni Guidi, maestro di cappella a Santa Maria in Trastevere a Roma o il napoletano Francesco Ruggi, Giovanni Prota e Domenico Tritto.

L'ascolto colto - Nella seconda metà del XX secolo, la riscoperta del barocco ha prodotto anche una ripresa delle esecuzioni puramente musicali dell'Agonia ed una diffusione delle registrazioni, oggi spesso disponibili in rete. A titolo di invito ne vogliamo segnalare sommariamente tre:

  • Giuseppe Giordani (1751–1798) detto il «Giordaniello»: Tre Ore di Agonia di S. Gesú Cristo, (1793)
  • Nicola Antonio Zingarelli (1752–1836): Tre ore dell’Agonia (1825),
  • Saverio Mercadante: Le sette ultime parole di Nostro Signore Gesú Cristo (1838)

 

 LA DEVOZIONE DELLE TRE ORE  AD ALATRI

Anche nella nostra Città la tradizione ha origini antiche, don Giuseppe Capone parlava di secoli…ma è pur vero che le notizie che abbiamo ad oggi delle storia di questa tradizione paraliturgica sono scarse e frammentarie e veicolate dai protagonisti più recenti. La versione recitata da sempre, all’inizio con l’orchestra poi solo con organo,  è  quella con le parole di Pietro Metastasio (1736) musicata da compositori quali Giovanni Aldega (1698/1782), Alessandro De Bonis (1888/1966),  Epimaco Egidi (1834/1910) - maestro di cappella ad Alatri dal 22/02/1894 al Dicembre 1904 -  i Maestri Ciarrapica e Fiorletta, Giuseppe Marchetti, Gigino Tarquini che ha anche arrangiato l’Invito  e la Quinta Parola  e con Organisti quali Giulio Sarra di cui si esegue anche la Prima Parola inserita agli inizi del secolo scorso (1901).

Le voci sono state per lunghi anni esclusivamente maschili perchè solo con le  “ISTRUZIONE DEL CONSILIUM  E DELLA SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI” per l’attuazione della Costituzione sulla sacra Liturgia MUSICA  SACRAM approvata specificatamente da Papa Paolo VI che nel 1967,  si permette anche alle donne di cantare nelle Chiese. Dopo secoli di ostracismo finalmente si sancisce che:  ”… . La «schola cantorum», secondo le legittime consuetudini dei vari paesi e le diverse situazioni concrete, può esser composta sia di uomini e ragazzi, sia di soli uomini o di soli ragazzi, sia di uomini e donne, ed anche, dove il caso veramente lo richieda, di sole donne.”

Fino a quel momento infatti   Papa Leone IV (847-855 d.C.) aveva  proibito  alle donne dei cori di cantare nelle chiese e, successivamente,  Papa Pio X  con l’Enciclica  MOTU PROPRIO “TRA LE SOLLECITUDINI”  SULLA MUSICA SACRA datata  22 novembre 1903  aveva  bandito  le stesse donne dai cori delle chiese affermando che : “….  Dal medesimo principio segue che i cantori hanno in chiesa vero officio liturgico e che però le donne, essendo incapaci di tale officio, non possono essere ammesse a far parte del Coro o della cappella musicale. Se dunque si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e contralti, queste dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa”. Fino al 1967 quindi era stato necessario compensare con le voci maschili e  quindi anche per  l’Agonìa ad Alatri  si  utilizzava  la tecnica del cosiddetto “falsettone”.

 

La devozione oggi.

Oggi la consultazione in Internet, oltre alle rappresentazioni occasionali e fuori contesto delle versioni piú note, dà notizia di qualche altra tradizione che ancora continua:

 

LE SETTE PAROLE DI GESÙ SULLA CROCE

Cristo sulla sua croce, dunque,  nel momento importante della sua morte, ha avuto la forza di pronunciare sette piccole frasi, chiamate le sette parole.
Giovanni Evangelista, testimone sul Calvario, ne trasmette tre. La altre quattro sono state scritte da Matteo, Luca e Marco.
Le sette parole, oggetto di meditazione lungo i secoli, hanno avuto un ruolo importante nella società medievale per ricordare le sette ferite di Cristo e per trovare un rimedio ai sette peccati capitali.

Le sette parole sembrano favorire una triste spiritualità, soffermandosi sulla sofferenza e sul peccato. Ma la fede in Gesù è fede che dona vita. Si passa attraverso il Venerdì Santo per arrivare alla Pasqua e con la Pasqua a vincere non è la morte, ma l’amore e la vita. In sette giorni Dio aveva concluso l’opera della creazione (Gn 2,2), con le sette parole Gesù accompagna la nuova creazione della domenica di Pasqua.

Le sette parole pronunciate sulla croce sono la sintesi più convincente del messaggio di Gesù. Ogni parola richiedeva a lui un sacrificio per esprimerla nella sofferenza, ma erano parole necessarie, essenziali ed uscivano dal cuore. Le sette parole sono il suo “testamento spirituale”, completamento al discorso dell’ultima cena nel vangelo di Giovanni. 

 Il senso della croce

La fede ci induce a scoprire che la croce è un grande segno dell'amore di Dio: su di essa si manifesta il disegno divino di non lasciare l'uomo abbandonato a se stesso e al suo peccato. L'amore del Padre si manifesta con il dono del Figlio. L'incarnazione nel grembo della vergine Maria è quindi un dono divino e una missione salvifica che ha, come meta, il sacrificio redentore del figlio, perché come dice il Vangelo di Giovanni: “il mondo si salvi per mezzo di lui”. Cristo, come vero uomo, ha preso su di sé tutto il peccato conseguente alla colpa originale e ha riparato con perfetta obbedienza, umiltà e giustizia la disobbedienza, la superbia e l'ingiustizia di Adamo. La croce, supplizio crudele e disonorevole degli schiavi, con Cristo diventa il prodigio del suo amore verso il Padre e verso di noi, emblema della salvezza, scrigno che racchiude ogni nostro bene. Guardando la croce non dobbiamo solo lasciarci commuovere, ma sentirci esortati a mettere in pratica la sua Parola, a fortificarci con la preghiera e i sacramenti, per raggiungere una vera conversione, pensando a quale prezzo siamo stati salvati.

Le “sette parole” che Gesù pronunciò sulla croce costituiscono il testamento spirituale d’amore del Cristo morente. Lo rileva, da ultimo, anche monsignor Angelo Comastri, già vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano e arciprete della Basilica di San Pietro, nel suo recente volume “Le ultime parole di Gesù in cui la meditazione sulle parole di Nostro Signore è accostata sapientemente ai gesti concreti di coloro che, con la loro testimonianza di vita, hanno incarnato il lascito di tale manifesto d’amore, testimoni contemporanei, da san Massimiliano Kolbe a Madre Teresa di Calcutta, fino al chirurgo e premio Nobel, Alexis Carrel.

Lo sviluppo dell’Opera

Testi di Pietro Metastasio

La forma, per così dire antologica, delle Sette parole è di per sé rassicurante. Andava dunque messo in preventivo che esse non si concludessero con «Dio mio, Dio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2). Il grido di abbandono è infatti la quarta «parola», non l’ultima. Viene addirittura anteposto all’esclamazione «ho sete» (Gv 19,28). L’interrogativo più fruttuoso è un altro, vale a dire quello di domandarsi perché si sia scelto di terminare con Luca e non già con Giovanni. Perché non si è optato per chiudere con la parola che sembrava davvero la più conclusiva «“consummatum est”, “tutto è compiuto”» (Gv 19,30)? Perché ci si è orientati verso l’espressione più aperta e fiduciosa: «Padre, nelle tua mani affido il mio spirito» (Lc 23,46; Sal 31,6)?

     Una risposta balena subito alla mente e al cuore. «Tutto è compiuto» è una parola ritrovabile solo sulla bocca del Gesù del quarto Vangelo. È un detto proprio di chi ha il potere di dare la sua vita e di riprenderla (cfr. Gv 10,18). Nessuna creatura umana al termine della sua esistenza può chiudere gli occhi sostenendo di aver portato a compimento ogni cosa. Se una persona muore vecchia è nelle condizioni di affermare di essere sazia di giorni (cfr. Gen 25,8; 35,29; Gb 42,17), non già di aver adempiuto tutto quanto gli era stato richiesto di fare. Per ogni uomo e per ogni donna vale il detto proprio della saggezza ebraica: «non sta a te completare l’opera ma non sei neppure nelle condizioni di sottrartene» (Mishnah, Pirqè Avot, II,21). La parola di Giovanni segna una distanza qualitativa tra noi e Gesù. Egli ci salva perché ci attira (cfr. Gv 12,32), ma a noi non è dato di ripetere le sue parole. Diverso è il discorso quando ci si rivolge al Padre perché raccolga con le sue mani il nostro spirito che ci sta lasciando. Si tratta di una parola che ci è dato far nostra al termine della vita. Le sette parole si concludono con una citazione biblica messa da Luca in bocca a Gesù per indicarne la condizione umana che tutti ci accomuna.

Invito: Moviam dolenti e taciti…

Moviam dolenti e taciti

i passi all’erto monte

là dell’Eterno il Figlio geme fra strazi

geme geme geme fra strazi ed onte.

Dalla cruenta croce udiamo

di Lui la voce

che all’uomo il ciel dischiudere

volle col suo morir, volle col suo morir.

Prole d’Adamo affrettati vieni e la Croce adora

vieni contrita e supplice il tuo peccato plora

… di Lui udiam gli ultimi accenti…

Musica: Epimaco Egidi

Revisione: Luigi Tarquini

 

 

Introduzione :Già trafitto in duro legno ..

Già trafitto in duro legno

dall’indegno popol rio,

la gran d’alma  un Uomo Dio

va sul Golgota a spirar.

Voi che a Lui fedeli siete

non perdete o Dio

i momenti: di Gesù gli ultimi accenti

deh! venite, deh! venite ad ascoltar.

Musica: Giovan Battista Aldega

 

 

I PAROLA

(Padre,perdona loro perché non sanno quello che fanno)   (Lc. 23.34)

Prima Parola : Di mille colpe reo ...

Di mille colpe reo, lo so, Signore io sono;

non merito perdono,

né più il potrei sperar.

Ma senti quella voce che per me prega,

e poi, Signor se puoi lascia di perdonar.

Musica: Giulio Sarra

 

 

II PAROLA

(Oggi sarai con me in Paradiso)  (Lc. 23.43)

Seconda  Parola : Quando morte  ...

Quando morte con l’orrido artiglio

la mia vita predare ne venga,

deh! Signor ti sovvenga di me.

Tu mi assisti nel fiero periglio.

E deposta la squallida salma,

venga l’alma a regnare con Te.

Musica: Epimaco Egidi

 

III PAROLA

(Donna, ecco tuo figlio.Figlio, ecco tua Madre) (Gv.19.26)

Terza Parola : Volgi ,deh ! Volgi ...

Volgi deh! Volgi a me il tuo ciglio Maria pietosa,

poiché amorosa me qual tuo figlio

tu devi guardar .

Di tanto onore degno mi rendi,

del santo amore Tu il cor mi accendi,

né un solo istante freddo incostante.

Ah! mai non sia, ah! mai non sia

Gesù, Maria lasci d’amar.

   Musica: Alessandro De Bonis

 

 

IV PAROLA

(Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?) (Mt. 27.46)

Quarta parola : Dunque,dal Padre ...

Dunque dal Padre ancora

abbandonato sei?

Ridotto t’ha l’amore a questo

buon Gesù!

ed io coi falli miei, permisero gioir,

Potrotti abbandonar?

Piuttosto o Dio morir, non più peccar.

Musica: Epimaco Egidi

 

V PAROLA

(Ho sete)   (Gv. 19.28)

Quinta Parola :  Qual giglio candido ...

Qual giglio candido allor che il cielo

Nemico negagli il fresco umor,

il capo languido,sul verde stelo,

nel raggio fervido posa  talor;

Fra mille spasimi tal pure esangue

di sete lagnasi il mio Signor !

Ov’è quel barbaro che mentr’ei langue

il refrigerio di poche lagrime gli neghi ancor ?

Musica: Epimaco Egidi

Revisione: Luigi Tarquini

 

 

VI PAROLA

(Tutto è compiuto)     (Gv. 19.30)

Sesta Parola : L’alta impresa ...

L’alta impresa è già compìta,

e Gesù con braccio forte

negli abissi la ria morte vincitor precipitò.

Chi alle colpe ormai ritorna

della morte brama il regno

è di quella vita indegno, che Gesù gli ridonò.

Musica: Epimaco Egidi

 

 

VII PAROLA

Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito”     (Matteo (27.46)

Settima Parola : Jesus expiravit ...

Jesus autem emissa voce magna ,expiravit.

Gesù morì !

Ricopresi di nero ammantò il cielo,

i duri sassi spezzansi si squarcia il sacro vel.

E l’universo attonito compiange il suo Signor …..

Musica: Alessandro De Bonis